E SE IL TEMA RICORRENTE DELL’ARTE NEL NOVECENTO FOSSE QUELLO DI SFUGGIRE A UNA VITA INSIDIATA DALLA COLPA ORIGINARIA?

By Patrizia Rossato Mari

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In questi cupi giorni di fine novembre, due almeno sono le occasioni che fanno riflettere sulla psicosi come scaturigine di una parte dell’arte del Novecento e sulla psicosi come tema di rappresentazione della rimanente; raso al suolo il continente in mezzo secolo di catastrofi belliche (la seconda è diretta conseguenza della prima), la tragedia vissuta dagli artisti, spesso in prima linea, e la questione morale implicata nell’adesione a regimi totalitari fondati su violenza e razzismo, diventano infatti tema delle Avanguardie. La prima di tali chances è il lutto per la perdita di un grande Maestro del cinema italiano, Bernardo Bertolucci, di cui vogliamo citare almeno un’opera, “Il conformista”, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, girato per la Paramount nel 1970 dopo che un’amica gliene aveva fatto il riassunto e Bertolucci, letto il libro, l’aveva poi rielaborato in chiave personale colpito dalle assonanze con il percorso introspettivo da lui medesimo intrapreso sotto forma di terapia psicoanalitica. La seconda ci è invece offerta da una splendida mostra in corso al Museo d’Arte di Mendrisio (Svizzera) fino al 27 gennaio: una grande antologica di Max Beckmann, indiscusso Maestro dell’Espressionismo tedesco fuoriuscito dalla Germania quando, con l’ascesa del nazionalsocialismo e la stesura di un programma per la cultura volto al recupero di presunte radici etniche e territoriali cuore dell’identità germanica, la sua viene bollata come ‘arte degenerata’ ragione per cui fugge dapprima in Olanda, dove vive la sua stagione più creativa, e infine negli Stati Uniti.

Trattasi dunque, rappresentata con codici espressivi diversi, della stessa temperie spirituale, storica e politica. L’Europa sullo sfondo della quale si stagliano la torbida parabola esistenziale di Marcello, vittima di traumi infantili in cerca di espiazione, e la rappresentazioni atroci e parossisticamente deformate delle tele di Beckmann, è infatti una sola: quella che, all’indomani della Grande Guerra, ha visto alzarsi l’alba livida sulle macerie di imperi millenari e sui milioni di morti distesi lungo le trincee delle Ardenne o del Carso, sacrificati in nome della volontà egemonica ed espansionistica dei governi e delle elite dominanti. Non vi è redenzione possibile per tali crimini. Beckmann, caduto in grave esaurimento nel corso della guerra e incapace per molti anni di riprendersi dal trauma del fronte, secondo il quale atrocità e orrori, abiezione sociale e morale, si sono insinuati nel corpo stesso dell’artista, legge la realtà attraverso la lente della deformazione espressiva più violenta: ossessiva e tragica, una realtà ad alta intensità simbolica e scorciata in squadrature sempre più angolose e aggressive fa da quinta a scene di società, a ritratti torbidi e sensuali, a un’enigmatica quanto fantasmatica Brunilde cui è la moglie a prestare la fisionomia. La forte accentuazione cromatica e la brulicante proliferazione di un universo sconvolto, ripresi dalla pittura di Bosch, saturano la scena allegorica di un’angoscia paralizzante, di un male radicale, di materia deformata da un principio maligno di ordine spirituale .

Ma un’identica atrofia spirituale è quella che alligna nel ‘Conformista’ moraviano. L’ignavia qui si colora di sadismo, di ipocrisia, di affilata crudeltà; il male si è rimpicciolito nel vizio privato che l’immagine pubblica nasconde, nel delitto rimosso ma non del tutto che occorre sotterrare affinché abbia inizio una nuova esistenza nel solco del vigente ordine, nulla importa che questo abbia l’ideologia fascista quale pietra angolare. E pazienza se per espiare quello originario, un nuovo delitto, ancora più abietto poiché si tratta di tradire un amico, deve essere infine compiuto. Così ha inizio la tempesta perfetta: così l’intero arco del secolo si iscrive in una gigantesca genealogia del male, sia quello originato dalla volontà di potenza e annientamento sia quello lasciato in essere dal torpore delle coscienze e dal filisteismo dell’uomo comune, poiché, come ha rilevato Hannah Arendt, i totalitarismi per attecchire devono illudere i benpensanti di fare i loro interessi in un contesto dove l’interesse dell’individuo non oltrepassi il suo ‘particulare’. By PM

 

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Co-founder FormaEssenza, Research and Content Manager

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